Il tema dei flussi migratori dalla sponda africana verso l’ Europa è sempre più presente nell’agenda delle chiese africane. Non a caso, lo scorso giugno la Comece (Commissione degli episcopati dell’Unione Europea) e il Secam (Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar), in vista del vertice Europa-Africa in programma il 28-29 Ottobre scorso (e rinviato al 2021 a seguito della pandemia Covid-19), avevano affermato che «i migranti e i richiedenti asilo diventano spesso vittime della proficua ma criminale attività della tratta di esseri umani, sia nei Paesi di transito che di destinazione», auspicando l’adozione di «contromisure audaci» per «assicurare la responsabilità degli autori e fornire assistenza alle vittime». A questo proposito, in ambito accademico, è importante segnalare un’iniziativa molto interessante dal punto di vista giuridico. Si è infatti costituito un gruppo di lavoro presso la facoltà di Giurisprudenza della Sapienza di Roma – coordinato da due docenti del calibro del professor Enzo Cannizzaro e del professor Umberto Triulzi – che ha promosso una riflessione per qualificare il traffico di migranti come crimine internazionale. L’intento è quello di restituire, dal punto di vista giuridico, il ruolo di vittime a coloro che si trovano costretti a rischiare la vita per sfuggire a situazione di povertà o di guerra. Prendendo atto della gravità delle condotte di coloro che sfruttano tale disperazione, in effetti, è necessario più che mai definire una efficace risposta sanzionatoria nei confronti dei trafficanti dando, proprio come scrivono gli studiosi, «un adeguato rilievo alle modalità con cui questi trasferimenti avvengono, inserendo, quale elemento indefettibile della previsione, il richiamo all’esposizione a rischio della vita del migrante, così da giustificarne l’inclusione nel catalogo dei crimini contro l’umanità e, conseguentemente, con riguardo alla possibile attivazione delle norme in materia di giurisdizione universale, consentire una risposta sanzionatoria più efficace».

Ecco che allora la qualificazione del traffico di migranti come crimine internazionale produrrebbe una serie di conseguenze giuridiche. Sul piano della repressione penale, gli individui coinvolti nella tratta, a diverso titolo, potrebbero rispondere delle loro azioni davanti ai tribunali di qualsiasi Stato ovvero, a certe condizioni, davanti alla Corte penale internazionale (Cpi). Mentre sul piano dell’azione della comunità internazionale, tale qualificazione conferirebbe un titolo giuridico a qualsiasi Stato, anche non direttamente interessato dal fenomeno, di chiedere, o forse anche di pretendere, la cooperazione di ogni altro Stato o organizzazione internazionale. Sul piano istituzionale, essa peraltro legittimerebbe un coinvolgimento delle istituzioni internazionali, sia sotto il profilo regionale che globale, prima fra tutte le Nazioni Unite. Peraltro, già nella risoluzione 2240 (2015), il Consiglio di sicurezza dell’Onu sembra prospettare il rilievo autonomo di tale fenomeno nel quadro delle Nazioni Unite.

Non v’è dubbio, allora, che, nel suo complesso, il lavoro di questo gruppo di studiosi, così com’è stato concepito, potrebbe imprimere un significativo salto di qualità nella riflessione – spesso convulsa e lacerante – che ormai, da diverso tempo, avviene nell’areopago europeo. Gli studiosi della Sapienza, infatti, ritengono che la qualificazione del traffico di migranti come crimine internazionale avrebbe dei risvolti positivi anche sul piano politico ed etico. Com’è noto, infatti, i governi del vecchio continente, in linea di principio, sono disposti ad accettare i “rifugiati” e molto prevenuti nell’accogliere i “migranti economici”. Si tratta di una distinzione elaborata nel pieno della guerra fredda, nel 1973, da Egon Kunz, nota come “push/pull theory” che riconduce la mobilità umana a due gruppi di fattori: i fattori “push”, cioè quelli che spingono fuori dal paese di origine (guerre, catastrofi, mancanza di diritti e opportunità) e i fattori “pull” che attirano verso il paese di destinazione (migliori opportunità lavorative, diverse condizioni di vita, presenza dello Stato di diritto…). Il paradosso è evidente. Se il migrante fugge dalla guerra o è perseguitato da un regime totalitario può essere accolto (qualificandosi appunto come profugo, vittima di migrazione forzata), se invece corre via da inedia e pandemie, in quanto nel suo paese non esistono le condizioni di sussistenza, non può partire e deve accettare inesorabilmente il suo infausto destino. E dire che molti popoli del Sud del mondo sono penalizzati proprio dalla globalizzazione dei mercati che non hanno certo inventato i migranti. Ecco perché sarebbe auspicabile definire un progetto europeo, nella cornice del diritto internazionale, che trovi nella solidarietà il suo punto di forza, nella consapevolezza che la libertà di partire o di restare è un diritto sociale esigibile e sacrosanto. La proposta formulata da questo team di studiosi, finalmente, supera la dialettica tra “rifugiati” e “migranti economici”, spostando l’attenzione e il dibattito politico e sociale sul vero problema: la relazione iniqua e peccaminosa tra i trafficanti (i veri criminali) e le loro vittime sacrificali (i migranti). Per dirla con le parole di papa Francesco, «Dentro di noi e insieme agli altri, non stanchiamoci mai di lottare per la verità e la giustizia».

P. GIULIO ALBANESE